di Paolo Bonacini, giornalista
Si chiama “Perseverance” l’ultima inchiesta coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna che vede indagate 29 persone, per 9 delle quali il giudice Alberto Ziroldi ha emesso misure di custodia cautelare in carcere o ai domiciliari. 18 di loro sono residenti in provincia di Reggio Emilia, 6 a Parma, 3 a Modena. C’è l’intera famiglia Sarcone che vive a Bibbiano (RE), a partire dai più noti e già condannati Nicolino, Carmine e Gianluigi. Ma c’è anche la sorella gemella di Carmine, Giuseppina, e soprattutto il quarto fratello ancora in libertà, Grande Giuseppe, ritenuto la “voce” della potente famiglia emiliana di ‘ndrangheta impegnato, da quando gli altri sono dietro le sbarre, a mandare avanti gli affari illeciti. E che affari!
“Perseverance” colpisce la consueta sfilza di intestazioni fittizie di quote societarie a cui i Sarcone sono ricorsi per eludere le misure di prevenzione patrimoniale e il consueto arsenale di pistole detenute per minacciare, intimorire, e se necessario per sparare. Ma soprattutto svela la brutalità della cosca nella sua capacità di condizionare il territorio e di sfruttare ogni occasione per arricchirsi. Arrivando anche al limite di una guerra di mafia con i potenti vicini/rivali della cosca Farao/Marincola originaria di Cirò (Crotone), insediata stabilmente di qua e di là dall’appennino tosco emiliano, pur di affermare la propria leadership criminale in entrambe le regioni. Il sostituto procuratore antimafia Beatrice Ronchi, nel presentare le richieste, segnala la storica capacità dei Sarcone di muoversi in controtendenza rispetto alle ferree regole della dissimulazione, per amplificare la capacità espansiva del sodalizio e creare le condizioni di un più morbido atteggiamento dell’opinione pubblica. È la storia che ci ha raccontato Aemilia, con i mafiosi presenti nei salotti buoni della città e delle istituzioni, quasi a rivestire il ruolo di benefattori. Ma che negli anni più recenti, dopo gli arresti e i processi, li vede capaci di mostrare l’altro volto della ‘ndrangheta: quello della violenza priva di scrupoli.
Di questa storia i Sarcone rappresentano un “tutt’uno”, come dice il collaboratore Salvatore Cortese, e Sarcone Grande Giuseppe, il più vecchio dei fratelli, ne è un protagonista secondo Beatrice Ronchi fin da tempi lontani. Almeno da quando, nella guerra di mafia degli anni Novanta in Emilia, doveva essere ammazzato per ordine dei Vasapollo Ruggiero e vide morire al proprio posto il giovane nomade Oscar Truzzi per uno scambio di persona. Assieme ai Sarcone, accusati del 416 bis in questa nuova inchiesta, sono Salvatore Muto classe ’85, uomo fino ad oggi in libertà dell’infinita famiglia dei Pipini, poi i più stretti collaboratori Domenico Cordua, Giuseppe Friyio, Domenico Caso. Ma anche nomi nuovi di persone incensurate residenti a Montecchio, Reggio Emilia, Scandiano, Parma, Traversetolo, Cadelbosco, Campegine, Modena, Soliera, Sala Baganza: il cuore dell’Emilia. Con mestieri utili alla causa delle truffe societarie: commercialisti, geometri, funzionari di banca.
Le storie di “Perseverance” ruotano attorno a due “figure inquietanti”, come le definisce Beatrice Ronchi, a loro volta indagate. Sono i coniugi di Soliera (MO) Alberto Alboresi, soprannominato “il gigante” e Genoveffa Colucciello, chiamata “la bambina”: compagni di affari illeciti della famiglia Muto.
Marito e moglie si rivolgono alla cosca reggiana per gestire due vicende complicate. In primo luogo vorrebbero uccidere quattro persone per appropriarsi di una eredità contesa: tre anziani fratelli (di cognome fanno Baraldi) e la signora che si occupava amorevolmente di loro, tal Marta Gibertoni. Cordua e Friyio ne parlano in questi termini: “C’è da picchiare una donna, è pacioccona. Una sessantina d’anni, con i capelli bianchi, brutta come Equitalia. Due pugni e la mandate in ospedale. O le buttate un po’ di acido sulla faccia, che dagli occhi non ci vede più”. Per fortuna in questo caso è arrivata la Squadra Mobile di Reggio Emilia prima che i delitti venissero commessi.
La seconda intenzione che spinge “il gigante e la bambina” a rivolgersi ai Sarcone è un tentativo di estorsione per recuperare un credito frutto di altre attività illecite. La cifra non è da poco, almeno tre milioni di euro, risultato di una frode fiscale che marito e moglie hanno realizzato assieme ad una terza persona, Luciano Scalmato detto “lo scoiattolo”, il quale ha però deciso di tenersi il bottino per sé. Genoveffa Colucciello, tra parentesi, si dedica a queste attività secondarie nel tempo libero, perché “la bambina” di mestiere fa la dirigente di banca, con importanti funzioni nei progetti di sviluppo del Banco San Geminiano e San Prospero (poi BPM) dove lavora fino all’agosto 2020. In due occasione diverse si è qualificata con le forze dell’ordine come vice direttrice della sede di Carpi (2011) e di Nonantola (2019).
Nasce però un problemino per la signora Colucciello, per suo marito Alboresi e per gli amici della ‘ndrangheta reggiana. Perché anche l’estorto, Luciano Scalmato, ha amici blasonati. Sono gli uomini delle famiglie Farao Marincola di Cirò Marina, paese a poca distanza da Cutro, a loro volta trapiantati al nord e in particolare di qua e di là dall’Appennino, tra Emilia e Toscana. Interviene Vincenzo Fustilla, uomo dei “Farao dell’Appennino” e negli scambi telefonici intercettati da chi indaga cominciano a volare le scintille: “I soldi non ve li diamo neanche se viene Nicolino Grande Aracri in persona!”
Cordua e Friyio lavorano per incassare il 6% di quei tre milioni: una bella cifra. Ma non sono abbastanza importanti per replicare all’affermazione foriera di minacce di Fustilla e informano della patata bollente Giuseppe Grande Sarcone e la sua amante Maddalena Santoro. Seguono telefonate, incontri, scambi di aperture e di minacce incrociate, ostentazione pubbliche di muscoli e trattative riservate poco dignitose, neanche fossimo alla crisi cubana del 1962 nelle relazioni tra Usa e Urss.
Alcune intercettazioni di Giuseppe Grande Sarcone rendono bene il clima: “Adesso gli misuriamo la febbre e vediamo chi è questo. Perché in Toscana comandiamo noi. O si fanno da parte (i Farao Marincola) o gli buttiamo una bomba. Vengo con la pistola, col rischio che mi incarcerano, per non avere niente? Glieli tolgo anche dalle mutande i soldi. Glieli faccio uscire dal buco del c…”
Tra il 18 e il 20 febbraio 2020 finalmente Sarcone e Fustilla si incontrano in un bar a Fidenza, entrambi con una pistola pronta a sparare. Ma la diplomazia mafiosa prende il sopravvento, con il capo libero della cosca emiliana che offre all’uomo di Cirò Marina una alternativa secca: o defilarsi, lasciando Scalmato al suo destino, oppure unirsi ai Sarcone nell’estorsione.
Nei mesi successivi accadono due cose che sospendono la resa dei conti: il lockdown da Covid blocca i movimenti di tutti e Giuseppe Grande Sarcone viene raggiunto dalla misura restrittiva dell’obbligo di dimora a Reggio Emilia sotto sorveglianza. La questione dei tre milioni resta sospesa e la sparatoria finale rinviata. Ma resta sospeso sui cieli dell’Emilia e della Toscana anche il monito del più vecchio dei fratelli Sarcone: “Tutto quello che passa, deve passare dalle mie mani, eh!!”
I Farao Marincola sono i capi della cosca messa all’angolo dall’inchiesta Stige della Procura di Catanzaro che ha già portato ad importanti condanne. Avevano tra i loro uomini di punta, stando alle sentenze, anche l’imprenditore parmense Franco Gigliotti. Proprio a Parma erano volate le prime scintille tra i Grande Aracri/Sarcone e gli uomini di Cirò Marina.
I Farao Marincola giù al sud sono inseriti nel sistema delle famiglie di ‘ndrangheta che compongono la cosiddetta “Provincia” del crotonese, il cui coordinatore e capo riconosciuto è (era) Nicolino Grande Aracri: debbono andarci piano a sfidare i diretti discendenti emiliani di “Mano di gomma”. Illuminante è ciò che dice Vittorio Farao al padre Giuseppe, a cui fa visita in carcere, riguardo agli screzi tra le due famiglie in provincia di Parma. Per risolvere un conflitto nato tra i cirotani e alcuni personaggi della camorra, arriva da Brescello Alfonso Diletto, genero di Nicolino Grande Aracri. E Vittorio Farao cerca di ingraziarselo: “Guarda che io ho un padre all’ergastolo e uno zio latitante, e sono quarant’anni che comandiamo noi qua!”
Come a dire: siamo brave persone.
“Perseverance” ci dice che la resa dei conti tra le due famiglie è per ora rimandata, perché perseverare è diabolico e tra i due litiganti il terzo gode: la Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna.
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