Verità per Giulio Regeni

IL PRIMO MAGGIO DEI BOOMER, DEI MILLENIALS E DEI GEN Z

Chi sarà mai un boomer, un gen X, un millenial, o addirittura un gen Z? Se non sapete rispondere significa che, come me, avete superato una certa età e quando vostro figlio vi dice: “Ok boomer”, restate con l’espressione da pesce lesso tipica di chi non sa di cosa si parli.

Niente di male, anche perché non è necessariamente una offesa, checché ne dica l’Accademia della Crusca attribuendo al neologismo un significato ironico e spregiativo.

Boomer deriva da baby boom e identifica le persone nate nei paesi occidentali durante gli anni del forte incremento demografico conseguente alla seconda guerra mondiale. Indicativamente tra il 1946 e il 1964. Chi è boomer oggi, semplicemente è vecchio. Il che appunto è un dato di fatto, benchè l’espressione sia spesso utilizzata per evidenziare atteggiamenti e modi di pensare ritenuti superati e obsoleti da parte dei più giovani. Niente di nuovo sotto il sole: era così anche quando noi boomer eravamo ragazzi e irridevamo alla mentalità ottocentesca dei nostri padri e nonni.

I millenials arrivano dopo i boomer e dopo la generazione X dei nati entro il 1980. La caduta del muro di Berlino li ha colti ancora in fasce o di là da venire, eppure possono vantarsi d’essere stati i pionieri digitali della storia terrestre. Oggi hanno tra i 25 e i 34 anni d’età e ricordano la nascita dei motori di ricerca, della connettività mobile, della messaggistica istantanea che hanno sperimentato per primi sostituendo in molti casi le vibrazioni delle corde vocali. Non è detto che sia un bene ma anche questo è un dato di fatto.

Poi ci sono i ragazzi della generazione Zeta, semplificata in Gen Z. Il termine non nasce a caso perché nel terzo millennio tutto ha un costo, un brand e un ricavo. Fu il quotidiano Usa Today a lanciare un concorso sponsorizzato nel 2012 per trovare l’appellativo dei post-millenials e, benchè altre espressioni siano d’uso comune tra i ragazzi (iGen, Centennials, Zoomers, ecc.) è solo il Gen Z che passerà alla storia per identificare i nati tra la metà degli anni Novanta e il 2010. Sono cresciuti in un mondo già globalmente digitale, imparando in contemporanea a camminare e a usare l’internet superveloce, a giocare in cortile e sullo smartphone, a guardare il mondo reale non solo attraverso il contatto diretto ma anche grazie ai video on demand.

I Gen Z non sono gli ultimi, perché già si affaccia al dibattito sul futuro della vita la generazione successiva, dei post 2010, chiamata Generazione Alpha. Ma poiché costoro ancora frequentano al massimo la quinta elementare, lasciamoli per un attimo in pace e occupiamoci dei più vecchi (o semplicemente meno giovani).

Cosa differenzia Boomer, Millenials, Gen X e Gen Z è già sufficientemente chiaro, ma la vera domanda è: cosa li accomuna?

Certamente il fatto che sono (o erano) giovani, perché le etichette generazionali si incollano nel tempo quando sono evidenti le caratteristiche socio culturali di rottura col passato, e questo avviene di norma grazie a chi non è ancora entrato negli “anta”: quaranta, cinquanta, sessanta…  Quando io ero un ragazzo, la generazione dei boomer che voleva portare l’immaginazione al potere e la politica a scuola era fatta di “giovani operai e studenti uniti nella lotta”; non tanto di padri di famiglia e di tranquilli pensionati che per lo più rappresentavano la “maggioranza silenziosa”.

L’essere giovani porta però come conseguenza, oltre ad un mare di cose meravigliose, anche una necessità piuttosto ingombrante: quella di trovare lavoro. E qui casca l’asino della storia che si ripete.

Perché trovare lavoro, e soprattutto trovare un lavoro adeguato alle aspettative, agli studi, alle leggi della giurisprudenza e a quelle del merito, è difficile oggi come ieri. Ed è più difficile, oggi come ieri, a chi vive in Italia rispetto a chi è cittadino svizzero o svedese.

Nell’agosto del 1970 Antonio (lo chiamiamo solo per nome perché è uno dei tanti), un boomer originario di Cutro che attendeva al bar di via della Croce Bianca a Reggio Emilia di essere chiamato a lavorare come carpentiere in un cantiere edile, non sapeva se e quante ore quel giorno avrebbe sputato sudore attorno ai muri di una palazzina in costruzione. Attendeva seduto all’aperto che i caporali di turno, chiamati Le Rose o Foderaro (anche loro erano due dei tanti), lo indicassero con un dito e dicessero: “Tu, con me”. Antonio costava il 30% in meno di un operaio con regolare busta paga, e di norma nella stagione estiva riusciva a mettersi in tasca abbastanza contanti in nero da tornare in Calabria col sorriso sulle labbra e un po’ di soldi da regalare alla famiglia. Anche il caporale Le Rose chiudeva soddisfatto la stagione, perché una parte di quel 30% se la metteva in tasca lui, e se non fosse stato per un banale incidente di percorso il suo cognome neppure lo conosceremmo oggi. L’incidente avvenne ad un incrocio dove altri due automobilisti gli rubarono la precedenza che lui sosteneva di avere. Le Rose scese dalla sua Fiat 124 puntando al capo degli altri una pistola con matricola abrasa illegalmente detenuta e quando arrivò la Polizia, per dimostrare che non era un malvivente ma un bravo lavoratore che si guadagnava onestamente il suo stipendio, disse semplicemente la verità: raccontò di essere un caporale addetto al reclutamento dei manovali. E spifferò tutto.

Chissà se Antonio, o Le Rose, o Foderaro, quest’ultimo definito dal giornalista Antonio Zambonelli, sempre nel 1970, un “big” del cottimismo residente in Emilia, che aveva alle proprie dipendenze diverse squadre di muratori a cottimo da smistare nei cantieri da Piacenza a Rimini, figurano tra gli “occupati” nelle statistiche del 1970 sull’andamento del mercato del lavoro.

Occupati come loro, una o due generazioni dopo, sono i millenials Francesco Innocente, Francesco Sciano, Francesco Sluga, Francesco Lettera, Samir Bahrini (perché non tutte le vittime di caporalato si chiamano Francesco). Di loro diamo nome e cognome perché il caso, che riguarda un cantiere edile in Belgio gestito nel 2017 con manodopera emiliana, è discusso in questi mesi al processo Grimilde, ma poco cambia nella sostanza rispetto a 47 anni prima. Chi lavora prende poche centinaia di euro al posto di poche centinaia di migliaia di lire, chi li sfrutta si divide la parte buona della torta.

E chissà per similitudine, saltando dai Millenians ai Gen Z, quanti cottimisti e caporali del 2020 figurano nelle dettagliate statistiche di oggi, che raccontano l’andamento occupazionale nell’era del Covid. Certamente non figurano senza occupazione Zadran, Shafiq, Hayat, Hullah (fermiamoci a 4 dei 21 nomi della lista) che lavoravano nelle campagne della Romagna partendo all’alba da un casolare di Bagnara. Operavano senza sosta alla raccolta di frutta e verdura, schiavizzati da caporali del sud est asiatico al servizio di rispettabili imprese italiane che appaltavano l’acquisto della merce umana addetta ai lavori pesanti. Il compenso cala ancora: qui siamo a 50 euro netti al mese che restano nelle tasche di ogni pakistano, qui siamo all’elemosina. Il tribunale di Forlì, a metà aprile, ha condannato ad oltre 4 anni di reclusione uno dei caporali.

Nel 2020 i giovani tra i 15 e i 29 anni non occupati e che non stanno seguendo percorsi scolastici, i cosiddetti neet, erano nell’Unione Europea dei 27 paesi il 13,3% della popolazione complessiva di quella fascia d’età. Una fetta di Gen Z che non lavora e non studia: fantasmi che la società non conosce e non controlla, da cui all’apparenza non riceve nulla e a cui non trasmette nulla. 13 su 100 non sono poi tanti, ma quella è una media europea ed è gusto chiedersi: coma va nei singoli Stati? E in Italia in particolare?

La rilevazione dell’ultimo trimestre 2020, pubblicata dal centro di analisi più rigoroso sul tema in Europa, il servizio Eurostat, dice che l’Italia è all’ultimo posto tra i 27 Paesi della Unione, con una percentuale di neet del 23%, in crescita dello 0,9% rispetto a 12 mesi prima. Da noi diventa ormai fantasma un giovane su quattro; in Olanda e Svizzera, che sono ai primi posti, solo cinque su 100.

Sempre nel 2020 i giovani in Italia che hanno abbandonato il lavoro sono stati 2.886.000. Peggio di noi in Europa ha fatto solo la Spagna. E assieme alla Spagna e alla Grecia condividiamo anche gli ultimi posti della classifica sulla disoccupazione di lunga durata, che registra uomini e donne d’ogni età rimasti senza lavoro almeno negli ultimi 12 mesi. Da noi sono il 4,7% rispetto al totale della popolazione in età da lavoro: il doppio della media europea. Il tasso complessivo di disoccupazione in Italia era a dicembre dello scorso anno del 9%. Quello della disoccupazione giovanile al 29,7%.

Sono numeri preoccupanti, poco divulgati e ancor meno discussi. Eppure dietro questi numeri c’è una realtà non meno preoccupante che riguarda la qualità dei numeri complementari necessari ad arrivare al 100% della forza lavoro di un paese.

Perché il tasso di occupazione globale al 91%, e quello dell’occupazione giovanile al 70,03%, nulla ci dicono sugli abusi, le violazioni, le irregolarità, che si celano dietro al mercato del lavoro. Nulla ci dicono sulla compressione o sulla negazione dei diritti che dovrebbero appartenere alle decine di milioni di lavoratori italiani. Nulla ci dicono sui tanti boomer, millenians, Gen Z; sui tanti Francesco, Antonio, Zadran, Shafiq e Hayat, che risultavano o risultano occupati ma che sarebbe più corretto definire sfruttati.

Buon Primo Maggio anche a loro.

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