Verità per Giulio Regeni

DUMPING

DHL Supply Chain è un’azienda che opera nel campo della logistica e dei trasporti a livello mondiale. Si occupa della catena di approvvigionamento, cioè di tutte le fasi che consentono di portare sul mercato un determinato prodotto o servizio. Che la consegna avvenga sotto casa, o all’altro capo del mondo, non fa differenza. È una delle grandi divisioni che caratterizzano la DHL, il colosso tedesco che fattura complessivamente quasi 60 miliardi di euro l’anno. Un quarto di questo smisurato volume di soldi, circa 14 miliardi di euro, arrivano proprio dalla Supply Chain che conta più di 140mila dipendenti e collaboratori, operativi in 220 paesi del mondo. Non c’è nulla che la DHL non trasporti, compresi i vaccini in Italia contro il Covid 19. Sono performances di cui il comitato direttivo della DHL Supply Chain, composto da 11 uomini, va orgoglioso. La parità di genere alla DHL non è per loro un problema, la Guardia di Finanza di Milano sì, almeno dal 7 giugno scorso.
È il giorno in cui la Procura del capoluogo e il nucleo di polizia economica della GdF hanno eseguito un sequestro d’urgenza per circa 20 milioni di euro, indagato la spa DHL Supply Chain Italy e due suoi presidenti: l’ex Fedele De Vita, in carica fino al 2018, e l’attuale Antonio Lombardo.
I pubblici ministeri ipotizzano reati fiscali e contributivi, esternalizzazione del lavoro verso società di intermediazione e finte cooperative definite “meri serbatoi di manodopera”, con l’obbiettivo di abbattere i costi, neutralizzare il cuneo fiscale, liberarsi di ogni potenziale conflitto legato alle relazioni industriali. In sostanza: guadagnare di più senza avere grane.
Nel 2018 la Supply Chain Italy ha realizzato un volume d’affari di 355 milioni di euro, ma nello stesso anno ha rilasciato poche Cud, le certificazioni uniche sul lavoro dipendente o autonomo. Da questa anomalia è nata l’inchiesta che ha prodotto una informativa trasmessa dall’Agenzia delle Entrate alla Procura di Milano nel febbraio 2020 e portato al sequestro milionario. Dice l’informativa che il sistema degli appalti di lavoro di DHL in Italia è caratterizzato dalla presenza di “società serbatoio”, solitamente cooperative, con un ciclo breve di vita (spesso falliscono), che si trasferiscono la manodopera dall’una all’altra “omettendo in maniera sistematica il versamento dell’Iva e dei contributi”. Le cooperative fatturano poi le loro prestazioni a “società filtro” che in genere sono consorzi privi di maestranze. Questi infine mandano la parcella al committente.
L’Agenzia delle Entrate parla di “fenomenologia evasiva fraudolenta”, concepita per agevolare “lo sfruttamento dei lavoratori” e la “concorrenza sleale”. La DHL è l’ultimo caso, ma se volessimo seguire Hegel nel suo approccio alla fenomenologia, iniziando con l’esplorazione appunto dei “fenomeni”, di questi in Emilia Romagna ne troveremmo tanti. Alcuni dei quali davvero “fenomenali”.
Non è un problema limitato a determinati settori produttivi. La pratica è dilagante perché allungare la catena dei fornitori, la supply chain, rende più difficili le attività di controllo e assicura grossi risparmi sul costo del lavoro, soprattutto se associata al caporalato, alla manipolazione delle buste paga, a tariffe orarie ribassate a piacere, al mancato pagamento delle imposte dirette e indirette, dei contributi previdenziali e assicurativi.
Funziona nel comparto agricolo e in edilizia, funziona nei settori della trasformazione alimentare, funziona nella meccanica di processo. Funziona nella nostra regione, lo abbiamo visto più volte, dove sia la ‘ndrangheta che organizzazioni criminali comuni utilizzano sistemi fotocopia a quello messo sotto accusa dalla procura di Milano. Funziona sempre più spesso, purtroppo, nel libero e incensurato mercato.
La Flai Cgil dell’Emilia Romagna, il sindacato del settore agro industriale, è stata protagonista di dure battaglie a tutela dei lavoratori della Inalca Spa, impresa del gruppo Cremonini il cui fatturato supera i 4,4 miliardi di euro l’anno. È uno dei maggiori player europei nel settore delle carni bovine che presidia l’intera filiera produttiva con 600mila tonnellate di carne commercializzate ogni anno. Inalca, nello stabilimento di Castelvetro di Modena, si affidava alle braccia di mille lavoratori in buona parte forniti da un gruppo di cooperative, il Consorzio Euro 2000, col quale è stato improvvisamente disdettato il contratto nel maggio 2015. Salvo proporre ai lavoratori la riassunzione a tempo determinato per sei mesi in una impresa interinale, la Trenkwalder srl, prima del passaggio ad una società di manodopera denominata Ges.Car srl.
La CGIL segnalava questa anomala operazione con una lettera inviata il 2 giugno 2015 al ministro del lavoro del governo Renzi, Giuliano Poletti, perché già si intravvedeva il fine ultimo: “Perché tutta questa fretta? È forse l’urgenza di inquadrare questi lavoratori entro il 2015 e godere così degli sgravi contributivi previsti dalla legge di Stabilità?”
Mentre i lavoratori continuavano a svolgere le stesse mansioni, i passaggi societari hanno consentito alla Inalca di beneficiare di uno sgravio di circa 14 milioni di euro dovuto a chi assumeva lavoratori precari da almeno 6 mesi. Commentarono poi Marco Bottura e Umberto Franciosi, a nome della Flai di Modena e dell’Emilia Romagna: “Il fine dello sgravio contributivo introdotto dalle Leggi di Stabilità era quello di favorire la buona occupazione a tempo indeterminato. In questo caso, invece, lo si è utilizzato per abbattere i costi, trasferendo semplicemente delle posizioni lavorative”.
Nel 2017 tocca alla Castelfrigo di Castelnuovo Rangone, sempre in provincia di Modena. Anche qui operano cooperative appaltatrici che di cooperativo hanno poco, con 70 soci lavoratori che scendono in sciopero denunciando “condizioni che assomigliano sempre di più ad una moderna schiavitù”. Il consorzio in questo caso si chiama Job Service e raggruppa quattro cooperative dove secondo le denunce si pratica un “nuovo caporalato”, con orari massacranti, trattamenti discriminatori, “milioni di euro evasi e utilizzo di prestanome a capo delle cooperative”.
Uno di questi prestanome è straniero come tanti altri lavoratori, viene dall’Albania e si chiama Harun. Trova lavoro in una delle cooperative del consorzio, la Framas, ma in cambio gli fanno firmare delle carte e di quella cooperativa lui diventa presidente. Quando l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza bussano alla sua porta, scopre di dovere sborsare 1,7 milioni di euro per il fallimento della cooperativa e trova la forza per denunciare: “Ho compreso troppo tardi di essere un prestanome ed ora ne sto pagando le conseguenze. Loro hanno utilizzato il mio nome e la mia firma, evadendo le tasse. E adesso sono io che corro il rischio di finire in carcere”.
Prima di queste storie c’era stata la bancarotta fraudolenta del consorzio di cooperative di facchinaggio, movimentazione e macellazione Powerlog, con quindici dirigenti indagati per un buco da 20 milioni di euro. Era un consorzio blasonato, con sede a Castel Maggiore di Bologna, oltre mille dipendenti complessivi suddivisi in una manciata di cooperative aderenti alla Lega o a Confcooperative. Lavoravano per imprese di alto livello: la stessa Inalca, Unicarni, Italpizza, Unipeg, la grande distribuzione organizzata, principalmente nelle province di Reggio Emilia, Modena, Bologna, Mantova. Applicavano normalmente il contratto nazionale Trasporti e Logistica al posto di quello dovuto dell’Industria Alimentare, con una diminuzione dello stipendio del 25/30% e con l’ulteriore taglio di altre voci come scatti di anzianità, ferie, tredicesime. Per i dirigenti delle cooperative invece stipendi da nababbi, auto di lusso, spese di rappresentanza gonfiate.
Dice Massimo Colognese, segretario regionale della Filt CGIL, il sindacato del settore trasporti: “Queste imprese fanno dumping sociale. Abbassano i prezzi sulle spalle dei lavoratori. E intanto le cooperative vere, che hanno ancora rispetto per la dignità del lavoro e dei lavoratori, sono tutte in difficoltà”.
Dopo queste storie c’è stato il caso nel 2019 dell’inchiesta Work in Progress, condotta dalla Guardia di Finanza di Parma, che ha portato alla luce la spregiudicatezza di due consorzi, Steel-Tech e IFG impianti, attivi nella acquisizione di commesse in Italia e all’estero nel settore della meccanica di processo per l’inscatolamento e l’imbottigliamento industriale. Le imprese associate a cui venivano affidati i lavori, sempre ottenuti attraverso imbattibili riduzioni delle offerte ai committenti, sfruttavano come terzo anello della catena un insieme di società cartiere, in realtà inesistenti, per l’emissione di false fatture che consentivano l’abbattimento dei costi sia di struttura che di manodopera. E ancora più di recente, nei giorni scorsi, sono finite agli arresti cinque persone a conclusione di una indagine di Guardia di Finanza e Procura di Modena che ha svelato una frode fiscale da 7 milioni di euro, realizzata attraverso false fatture per operazioni inesistenti di tre società che offrivano al mercato dell’edilizia lavoratori a costi ribassati grazie ai margini garantiti dalle operazioni illecite.
Siamo partiti dalla DHL, chiudiamo con un altro grande colosso della supply chain: la statunitense FedEx, partner ufficiale del Campionato Europeo di calcio attualmente in corso. La multinazionale ha deciso la chiusura irrevocabile dell’hub FedEx-TNT di Piacenza, gettando nella disperazione 280 lavoratori. Molti di questi hanno promosso iniziative di lotta ai cancelli dei magazzini e nella notte tra il 10 e l’11 giugno, davanti alla sede FedEx di Tavazzano in provincia di Lodi, sono stati aggrediti da una squadra di anonimi bodyguards e colpiti con bastoni, aste di bancali, sassi e bottiglie. Dieci contusi uno dei quali, Abdelhamid Elazab, finito all’ospedale per una grave ferita al cranio. Molti lavoratori della sede piacentina sono organizzati nel sindacato autonomo Si Cobas, ma il commento di Luigi Giove, segretario generale della CGIL Emilia Romagna, non lascia spazio alle contrapposizioni sindacali di fronte all’aggressione fisica: “Inaudito e inaccettabile che queste violenze arrivino da squadracce di infausta memoria, intervenute allo scopo di aggredire e intimorire i lavoratori. La difesa del lavoro e la libertà di manifestazione sono principi sanciti dalla Costituzione e nessuno deve permettersi di metterli in discussione”.

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