Verità per Giulio Regeni

IL MODELLO EMILIANO DI TAURUS

Poco più di un mese fa, venerdì 3 luglio 2020, il GIP del Tribunale di Venezia dott.ssa Francesca Zancan firmava un provvedimento che dispone l’arresto e la custodia in carcere per 26 persone, 8 delle quali accusate di appartenenza ad una organizzazione criminale di ‘ndrangheta radicata in Veneto.

di Paolo Bonacini, giornalista

Poco più di un mese fa, venerdì 3 luglio 2020, il GIP del Tribunale di Venezia dott.ssa Francesca Zancan firmava un provvedimento che dispone l’arresto e la custodia in carcere per 26 persone, 8 delle quali accusate di appartenenza ad una organizzazione criminale di ‘ndrangheta radicata in Veneto. La richiesta della Procura Distrettuale riguardava un numero ben maggiore di indagati, 71, ai quali il fascicolo di indagini e intercettazioni dell’inchiesta Taurus attribuisce complessivamente 119 capi di imputazione. Cuore geografico dell’associazione mafiosa, secondo la Procura, sono alcuni comuni del veronese (Sommacampagna, Villafranca, Valeggio sul Mincio, Lazise, Isola della Scala) dove operavano membri di potenti famiglie malavitose originarie della piana di Gioia Tauro (Reggio Calabria): i Versace, i Gerace, i Napoli, gli Albanese.

I reati per cui sono stati chiesti gli arresti mostrano l’ormai consueto ventaglio di attività illecite e violente della ‘ndrangheta in Pianura Padana: possesso di armi e stupefacenti, truffe ai danni di Enti Pubblici, estorsioni, false fatturazioni, riciclaggio, turbativa d’asta, furti.

Cosa c’entra Taurus con l’Emilia Romagna? Molto. Si può anzi tentare di sostenere, anche alla luce di questa indagine, che non c’è più soluzione di continuità nell’operato delle cosche calabresi trapiantate al nord. Né geografica, perché l’intera valle Padana è terra di conquista dal Piemonte all’Adriatico, né di specializzazione, perché oggi tutti (i mafiosi) si dedicano a tutto l’illecito possibile, né di appartenenza, perché la ‘ndrangheta moderna tesse alleanze alla bisogna anche col diavolo, andando oltre gli antichi confini famigliari.

Il giudice, nell’ordinanza di Taurus, cita uno dei motivi per cui la Procura veneta accusa di associazione mafiosa Carmine Gerace, il boss detto “Carminello”, che nasceva a Gioia Tauro nel 1980 quando i suoi famigliari piantavano le radici a Verona, e gli altri sette che con lui risponderanno in Tribunale del 416 bis: “Per avere cercato direttamente o indirettamente di acquisire il controllo e la gestione di attività economiche nei più svariati settori, mostrando il proprio carisma criminale, talora aggregandosi con soggetti contigui o affiliati a cosche diverse”.

Talora aggregandosi con soggetti di cosche diverse, dice la dott.ssa Zancan. E qual è la cosca che possiede esperienza, blasone, know out, legami e competenze a cui ricorrere per incrementare il fatturato? Taurus ci riporta inevitabilmente qui, in Emilia Romagna e a Reggio Emilia, alla capacità mafiosa di infiltrazione dei settori produttivi, di sfruttamento del welfare come valore aggiunto per sé a scapito di chi lavora, di movimentazione del denaro (nel caso delle truffe carosello addirittura di “creazione” del denaro) che Aemilia ci ha svelato e della quale le inchieste successive, da Camaleonte a Stige a Grimilde, ci raccontano la diffusione al nord.

Diversi personaggi coinvolti nell’inchiesta Taurus risiedono in provincia di Reggio Emilia e alcuni nomi sono ben noti al grande processo ospitato nell’aula bunker del Tribunale, concluso con 1223 anni di carcere nel primo grado.

Tra gli indagati stanno due membri dell’infinita famiglia dei Pipini, soprannome dei Muto. C’è Salvatore, nato a Cutro 57 anni fa e residente a Brescello (e dai…), più vecchio e da non confondere con il Salvatore residente a Piacenza divenuto collaboratore di giustizia in Aemilia. Poi c’è Franco Muto detto Francuzzu, 45enne residente a Reggio Emilia, fratello di Antonio e cugino della moglie di Giuseppe Iaquinta, per citare due condannati eccellenti del processo reggiano. Altri arrestati residenti a Reggio Emilia sono: 1) Giovanni Minarchi, nativo di Isola Capo Rizzuto, il comune confinante con Cutro dove prosperava la famiglia Arena (poi emigrata in Emilia); 2) Davide Arabia, 40enne membro della storica famiglia cutrese residente a Quattro Castella (RE) legata al boss Antonio Dragone e periodicamente alla ribalta delle cronache. Due anni fa Giuseppe e Salvatore Arabia, padre e figlio, sono stati arrestati e denunciati a Reggio Emilia per avere picchiato un camionista, loro dipendente, che pretendeva addirittura… di essere pagato per il lavoro svolto! 3) Giuseppe Trivieri, nato in Germania nel 1974 ma residente a Reggiolo (RE), col quale ci avviciniamo alla pedina fondamentale del legame tra Verona e Reggio Emilia che si cela dietro l’inchiesta Taurus: Santo Tirotta.

45 anni, nativo di Cutro e domiciliato a Lazise, a due passi da Gardaland, Tirotta è l’uomo della falsa fatturazione, che assieme a Trivieri mette a disposizione le proprie società per operazioni fittizie che consentono di riciclare soldi di provenienza illecita. Soldi che arrivano dai Muto, dagli Arabia, da Salvatore Cappa e Francesco Frontera detto Provolone, da Giuseppe Iaquinta e Salvatore Papaleo. Ripuliti utilizzando la “Trivieri srl” del tedesco di Reggiolo e la “Pulizie del Santo srl” del Tirotta gardesano.

Le certezze su questi fatti arrivano dalle confessioni dello stesso Tirotta che già nel 2015 svelava agli inquirenti chi andava d’amore e d’accordo con la ‘ndrangheta veronese: “Conosco Grande Aracri Nicola perché è del mio paese, ho avuto a che fare con Salvatore Cappa detto Testone. Quando ero piccolo andavo a scuola con Francesco Frontera, che conta perché il suo capo Nicolino fa molto affidamento su di lui (8 anni e 10 mesi la condanna definitiva per Frontera, cugino dei fratelli Arabia, in Aemilia). Conosco bene Angelo Salvatore Cortese perché faceva parte del gruppo di Grande Aracri”. Anche Cortese (dal 2008 collaboratore di giustizia) conosce bene Tirotta, tanto da raccontare ai PM: “Santo Tirotta è come il prezzemolo, in tutte le parti c’era lui.” A volte lo prendevano in giro il Tirotta, dice ancora Salvatore Cortese, perché “era un bonaccione. Ma dove c’erano i soldi, c’era lui”.

Di soldi ce n’erano tanti da ripulire attraverso le false fatture, e quasi tutti provenienti dalle attività della cosca emiliana. Centinaia di migliaia di euro documentati solo tra il 2015 e il 2016; probabilmente milioni nella movimentazione complessiva.

Domanda dei PM a Santo Tirotta in un interrogatorio dell’ottobre 2015: “Ha mai fatto fatture false?”

Risposta: “Sì, ho fatto fatture false con la Tiesse Costruzioni. A Reggio Emilia i calabresi tutti facevano l’attività di false fatturazione, attività molto diffusa. Funziona così: le società che hanno un fatturato alto ricevono le fatture mentre le società che hanno un reddito basso, come la mia, facevano sparire l’IVA. Noi Cutresi adoperavamo questo sistema, soprattutto a Reggio Emilia. Quelli del paese tutti fanno cosi, non lavora nessuno. Altre ditte che facevano fatture false erano Edil Silipo, Le Rose Salvatore, Mercurio Domenico, i Grisi, che erano i numero uno. I cutresi usano spartire l’Iva e cioè il 50% a chi fa la fattura ed il 50% a chi procaccia il soggetto ricevente. Adesso che l’Iva è al 22% fanno 11 e 11”.

Semplice e tutto “made in Reggio”, compreso il linguaggio criptico necessario per non insospettire in caso di intercettazione: “Ad esempio se dico al telefono 20 operai o 20 piastrelle, intendo 20mila euro. Una mano significa 50mila”.

Dice ancora il provvedimento del giudice Zancan: “La cosca versa all’imprenditore il denaro contante ed emette tramite altre ditte compiacenti fatture fittizie per opere o servizi non effettuati. L’imprenditore restituisce alla cosca l’importo delle fatturazioni ricevute mediante l’emissione di bonifici o assegni bancari postdatati. L’operazione descritta è vantaggiosa sia per la cosca, che trasforma i proventi illeciti in fondi ripuliti e reimpiegabili, sia per gli imprenditori, i quali scaricando l’IVA a credito ottengono in bilancio un elemento negativo che consente di abbattere il reddito con conseguente vantaggio fiscale. I soggetti che hanno emesso le false fatture per conto della cosca a loro volta ottengono un profitto pari all’IVA ricevuta e mai pagata. Il costo dell’intera operazione viene dunque a gravare sull’erario.”

La descrizione ricalca quanto evidenziato in Aemilia e messo nero su bianco con le sentenze e con le condanne: il malefico abbraccio tra imprese “della cosca” e imprenditori disponibili a fare affari “con la cosca”. Santo Tirotta e Giuseppe Trivieri stavano come tanti lì in mezzo, nel girone infernale di chi si lega alla ‘ndrangheta e non riesce più a slegarsi, tanto che a casa del Trivieri era registrata la sede legale della “Costruzioni IGV srl” di Giuseppe Iaquinta. Quando parlano tra di loro dei mafiosi, Tirotta e Trivieri gonfiano il petto, come si legge in una delle tante telefonate intercettate: “Sono qua a Reggio Emilia” dice Tirotta “Sto a faticare con ‘sti ingordi di merda. Sono bugiardi e ingordi”. Ribatte Trivieri: “Ingordi che stanno attaccati pure all’euro. Con tutti i soldi che pigliano senza che facciano un cazzo!”

I due stanno insultando al telefono Franco Muto, ma lo fanno lontano da lui. Al cospetto degli ‘ndranghetisti l’atteggiamento cambia e si china la schiena.

C’è un altro elemento dell’inchiesta Taurus che ci rimanda alla preoccupante attualità di pratiche illecite nei rapporti di lavoro, anche queste importate dall’Emilia. E’ Giuseppe Arabia a dover rispondere di un sistema di false certificazioni sanitarie rilasciate da medici compiacenti, utilizzate per consentire ad un numero imprecisato di soggetti di ottenere pensioni di invalidità non dovute, con un evidente grave danno per l’INPS. Secondo l’accusa il guadagno per Arabia consisteva nel 50% degli arretrati spettanti ai “falsi invalidi”. Anche questa è una storia già vista, soprattutto in Emilia Romagna. Nel 2018 l’operazione della Guardia di Finanza chiamata “Paga Globale” ha svelato un sistema illecito di società cartiere e false certificazioni mediche di malattie attraverso le quali frodare l’INPS. 26 erano gli indagati in otto province, con beni sequestrati per oltre due milioni di euro e il cuore della truffa che pulsava secondo l’accusa a Fidenza (PR), nell’azienda di un allora 53enne imprenditore di Salsomaggiore: Luigi Sabbatino. Tra gli altri indagati di Paga Globale c’era l’imprenditore crotonese residente a Cutro Giuseppe Lazzarini, oggi imputato di Grimilde dove è definito “braccio destro” dei capi emiliani Sarcone e Diletto, coi quali minacciò di impiccare il gestore di un locale a Marina di Ravenna. Assieme a loro in quel giorno di ordinaria violenza c’era anche Gennaro Gerace. Gerace come i Carmine e Mario accusati di associazione mafiosa in Taurus. E’ una giostra di nomi che gira, gira, gira, attorno al Po, apparentemente senza mai fermarsi…

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