Verità per Giulio Regeni

IL CAPANNINO

di Paolo Bonacini, giornalista

Se è vero che i muri hanno orecchie, come nel Louvre di Caterina dè Medici, allora le pareti della Dozza hanno potuto ascoltare nell’arco di cinque giorni il primo e il secondo tempo dello spettacolo titolato: “La merce inanimata”. È la storia di come il “capitale umano” rappresentato dai lavoratori possa essere maltrattato e spremuto per trasferire ricchezza a chi maltratta e spreme. Il primo tempo è andato in scena venerdì 11 settembre, con le conclusioni al processo Grimilde dell’avv. Gian Andrea Ronchi per la parte civile CGIL (Reggio Emilia, Piacenza e regione Emilia Romagna). Il secondo tempo si è aperto nello stesso teatro ma in un altro processo, l’appello di Aemilia, con la requisitoria martedì 15 settembre del sostituto procuratore generale Lucia Musti sulla figura di Michele Bolognino. Il capocosca (secondo l’accusa) residente a Montecchio per il quale è stata chiesta la conferma della condanna di primo grado, ridotta a 28 anni per la riunificazione dei reati.

L’avvocato Ronchi, ne abbiamo parlato nel recente articolo titolato: “Dove c’è un camion c’è un camionista”, ha riassunto con grande efficacia nel suo ragionamento la natura oppressiva ed estorsiva della cosca nei confronti dei lavoratori indispensabili ai suoi affari. “Il lavoratore non si assume” constata con amarezza l’avvocato, “il lavoratore si compra. Il rapporto di dipendenza non è fondato sulla scrittura di un contratto di lavoro ma sulla risposta ad una semplice domanda: quanto mi costa?” L’operaio, l’autista, il lavapiatti, dice Ronchi, non sono più persone in questo contesto ma “merce”.

Non meno efficace è il racconto della storia che coinvolge Bolognino in questa opera di sfruttamento della “merce umana”, a partire dal luogo in cui, seguendo le più becere regole del caporalato, operai e muratori venivano radunati prima del trasporto sui canteri della ricostruzione post terremoto. È un immobile a Montecchio, paese baricentro della ‘ndrangheta emiliana più ancora di Brescello o Gualtieri. Il “Capannone di Bolognino”, ci ricorda la procuratrice Musti, veniva chiamato il “Capannino” mescolando i due termini: un luogo dove potevi trovare (o meglio dove i militari hanno trovato) una Beretta calibro ’98 nascosta dentro la cabina dei contatori del gas, o un fucile di fabbricazione serba con scritte in cirillico che fai fatica a comprarlo alla Coop o a Mediaworld.

Chi ha conosciuto il “capannino” e l’imprenditore Bolognino ne è uscito con le ossa rotte. Operai dalla “minorata difesa”, dice la Musti, che di cognome facevano Balzano, Chiaro, Auriemma, Perrotta, o più semplicemente “marocchini”, senza la M maiuscola, dai quali Bolognino e i suoi compari Richichi e Alleluia esigevano la restituzione della Cassa Edile tolta dal già misero compenso mensile: 350 euro su 1000. L’imprenditore modenese Augusto Bianchini quei lavoratori formalmente assunti nella sua impresa di costruzioni li pagava 23 euro l’ora a Bolognino, attraverso un giro di false fatture raccontato nei minimi dettagli dalle indagini e dal primo grado di Aemilia. Ma di quei 23 euro ai lavoratori ne andavano solo 10, pagati in nero. Uno di loro un giorno sollecita il pagamento che è in ritardo, ma Bolognino gli risponde semplicemente: “Se lo fai ancora, non ti paghiamo più”.

Gli operai, sottolinea Lucia Musti, “subiscono la violenza e la aggressività di Bolognino”. Per i giudici che hanno emesso la sentenza di primo grado si percepisce la loro paura anche dalle deposizioni rese in aula: “La lettura delle loro dichiarazioni rende immediatamente apprezzabile la loro reticenza. L’atteggiamento tenuto dai due testimoni (Auriemma e Chiaro) si è rivelato assolutamente sintomatico dello stato di sottomissione e omertà in cui versavano, generato dalla paura e dalla consapevolezza di avere a che a fare con soggetti appartenenti alla criminalità organizzata di stampo ‘ndranghetista”. La Corte di Reggio Emilia ha deciso anche per loro la trasmissione degli atti alla DDA che dovrà valutare l’ipotesi della falsa testimonianza, e la procuratrice Musti si inalbera quando informa la Corte d’Appello che le difese hanno impugnato questa richiesta: “Non è un atto impugnabile!”, dice.

Poi aggiunge, ancora rivolta alle difese: “Cercano di minimizzare questi fatti, come se sfruttare gli operai, intimidirli, usare la falsa fatturazione per coprire i pagamenti in nero, non fosse neppure un reato”.

Il riferimento a pratiche dilaganti ai nostri tempi, alla logica del “così fan tutti” già sentita nell’aula bunker di Reggio Emilia, è evidente. Ma quanto sia reale il reato, senza zone franche in cui rifugiarsi, ce lo dicono alcune intercettazioni dell’inchiesta Camaleonte condotta dalla direzione antimafia del Veneto, dove l’onnipresente Michele Bolognino sale in cattedra: “Se non fai quello che dico io ti spacco le gambe, ti spacco la testa. Tu e la puttana di tua moglie dovete lavorare per me e stare zitti”. Ma non lo dice a un muratore in questo caso; lo dice ad un imprenditore, Stefano Venturin. Perché nessuno si salva dalla logica della cosca che Bolognino riassume in un’altra intercettazione con eccezionale efficacia mentre prendono a pugni in faccia Venturin davanti alla moglie schiaffeggiata che piange: “I soldi. Con le buone o con le cattive”.

I soldi rappresentano la sintesi tra “il capitale mafioso e il capitale d’impresa”, aggiunge Lucia Musti nella sua requisitoria, che la storia emiliana ci racconta partendo proprio dal paese di Bolognino, Montecchio, dove i membri di una potente famiglia, i Vertinelli, decidono nel tempo di mettersi a disposizione della consorteria “per lavorare in pace e arricchirsi”. Per ottenere quello status ideale, come dice il collaboratore di giustizia Angelo Salvatore Cortese parlando di loro, di “Bancomat vivente”.

Proprio i membri della famiglia Vertinelli sono oggetto del terzo atto di questa commedia, che sempre i muri della Dozza ascoltano giovedì 17 settembre. Si decide il destino in appello di Palmo Vertinelli, della moglie Antonietta Bramante, di Giuseppe classe ’86 e di Antonio classe ’90, della cognata di Palmo, Giovanna Schettini. Tutti difesi dall’avv. Gaetano Pecorella. Per Giuseppe Vertinelli detto Pino, fratello più giovane di Palmo, il sostituto procuratore antimafia Beatrice Ronchi aveva chiesto il 30 giugno scorso la condanna in Appello a 23 anni e 6 mesi riunificando i reati del primo grado. Oggi è ancora lei a tornare in aula per la Procura Generale: il PM del primo grado di Aemilia che ha affiancato per tre anni Marco Mescolini nel Tribunale di Reggio Emilia. Che conosce a memoria quanto detto in aula dall’altro collaboratore Antonio Valerio: “I Vertinelli già negli anni Ottanta facevano la falsa fatturazione e gestivano il caporalato dei lavoratori in edilizia”. Beatrice Ronchi l’ha ricostruita tutta, la storia della famiglia, nelle due ore del suo intervento, rinfrescando anche la nostra memoria sui tanti segnali passati indicatori di una presenza mafiosa nei nostri territori che faticavamo a vedere o ad ammettere. Alla fine la richiesta per Palmo si discosta pochissimo da quella del fratello: 23 anni e 9 mesi. Anche per le mogli richieste fotocopia: 7 anni e 9 mesi per Giovanna Schettini, 7 anni e 4 mesi per Antonietta Bramante. Ad entrambe l’accusa contesta la disponibilità ad agevolare le attività dei mariti nel depistaggio che passa attraverso le false intestazioni di società e beni. Ne avevano tanti, come dimostra il sequestro del 29 ottobre 2015 messo in atto sull’onda di Aemilia tra Reggio Emilia, Parma, Crotone e in Val d’Aosta: 12 aziende, 71 immobili, 22 automobili, un numero rilevante di conti correnti. Oltre 30 milioni di euro, un patrimonio che rendeva orgogliosa e potente l’intera grande famiglia Vertinelli.

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