Verità per Giulio Regeni

DOVE C’È UN CAMION, C’È UN CAMIONISTA

di Paolo Bonacini, giornalista

Dove c’è un camion c’è un camionista… e noi siamo qua per questo”.

Il “noi” sta per la CGIL Emilia Romagna e per le Camere del Lavoro di Reggio Emilia e di Piacenza, che si sono costituite parti civili al processo Grimilde contro la cosca di ‘ndrangheta guidata da Francesco e Salvatore Grande Aracri. Contro lo sfruttamento delle persone che le attività economiche sulle quali i mafiosi avevano messo le mani inevitabilmente contemplava, perché “dove c’è impresa c’è capitale umano, e senza i lavoratori la ‘ndrina non farebbe niente”.

Le frasi tra virgolette sono dell’avvocato Gian Andrea Ronchi, che venerdì 11 settembre ha sviluppato le conclusioni delle tre organizzazioni sindacali nell’aula di Tribunale della Dozza di Bologna, dove il rito abbreviato del processo Grimilde corre velocemente verso la conclusione. Grimilde è la naturale prosecuzione di Aemilia; racconta attività parallele della ‘ndrangheta gestite anche dopo gli arresti del 2015 da uomini liberi insediati sulle sponde del Po tra le province di Piacenza, Reggio Emilia e Mantova. I capi di imputazione, che riguardano una ottantina di rinviati a giudizio, confermano e consolidano la natura “affaristica” della ‘ndrina e la sua strutturale presenza nelle attività d’impresa: qualsiasi attività, qualsiasi impresa in cui si può “riciclare denaro e creare nuova ricchezza con azioni predatorie”.

L’avvocato Ronchi ricorda alla Corte e a tutti noi che non è un asettico mercato finanziario quello in cui opera la cosca, bensì il contesto produttivo di imprese che hanno capannoni, muri, attrezzature, terreni, mezzi di trasporto, in massima parte nella nostra regione. Che necessitano appunto per funzionare di quel “capitale umano” imprescindibile rappresentato dai lavoratori. I quali però hanno il destino segnato nell’operare sotto il controllo della ‘ndrangheta, perché l’approccio della cosca, per quanto essa sia moderna ed evoluta (come dice il collaboratore Antonio Valerio), resta il più antico possibile sulla cultura del lavoro e richiama le pratiche schiaviste di qualche secolo fa. “Il lavoratore non si assume, il lavoratore si compra. Il rapporto di dipendenza non è fondato sulla scrittura di un contratto di lavoro ma sulla risposta ad una semplice domanda: quanto mi costa?” L’operaio, l’autista, il lavapiatti, dice Ronchi, non sono più persone in questo contesto ma “merce”. E le caratteristiche fondamentali che questa “merce” deve avere sono due: costare complessivamente il meno possibile, per consentire l’arricchimento della cosca, ed essere il meno combattiva possibile, dunque non sindacalizzata, per favorire il controllo e la gestione autoritaria nei rapporti di lavoro.

Un esempio per tutti in Grimilde: tra i “reclutati” da Salvatore Grande Aracri per un cantiere aperto a Bruxelles, in Belgio, l’operaio Francesco Sciano ha lavorato per 100 ore ricevendo 675 euro in contanti (6,75 euro l’ora) senza busta paga, senza indennità, senza contributi, pagandosi da solo il vitto nelle settimane dal 25 marzo al 13 aprile 2017. Ma il danno non finisce qui, perché Francesco e tutti gli altri lavoratori coinvolti come lui in queste storie non si rivolgono ai sindacati per fare valere i loro diritti. “Uno solo di loro iscritto alla CGIL non si trova”, spiega l’avv. Ronchi, perché “il rapporto è gestito con metodo mafioso dall’inizio alla fine”. Perché “la sicurezza e il rispetto degli orari di lavoro stabiliti dalle leggi e dai contratti collettivi sono negati”. Perché il sodalizio sottomette le singole persone e decide il loro costo orario tutto compreso, tenendo conto anche della mazzetta da pagare a chi fornisce la mano d’opera. Mazzetta che diventa un ulteriore minor ricavo per la stessa mano d’opera.

“Merce inanimata”, la definisce Ronchi, che ricorda per contrapposizione, a sottolineare lo sfregio che il caporalato e lo sfruttamento imposti dalla ‘ndrangheta producono alle regole di comunità, l’art. 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. La cosca neppure sa che esiste quell’articolo, perché la sua natura è quella di organizzazione eversiva, di “tempesta che incide e modifica le regole”, che “offende il concetto di impresa”, che “usa i kalashnikov per convincere gli operai”. Che non si accontenta e allarga le proprie sfere d’azione a tutti i comparti merceologici, che arriva a gestire grandi discoteche come l’Italghisa o il Los Angeles, locali di punta della Reggio by night, ma non rinuncia al monopolio della vendita di pizze a domicilio nel comune di Brescello minacciando chi commercia Margherite e Napoli senza l’opportuno benestare. “Quale sarà mai il fatturato delle pizze a domicilio in un piccolo paese di neppure seimila abitanti?” si chiede Ronchi, ma il vero obbiettivo, aggiunge, non è solo economico ma anche di potere: è conquistare ogni pezzo possibile di mercato. E anche la pizza è un pezzo.

Alle regole della ‘ndrangheta, ci dicono i processi, spesso e volentieri si adeguano per il proprio tornaconto soggetti con funzioni pubbliche e con ruoli importanti nel contesto sociale: l’ex presidente del consiglio comunale di Piacenza Giuseppe Caruso, arrestato in Grimilde e accusato di appartenenza alla cosca, è il nome più eclatante. Ma almeno per un soggetto pubblico e collettivo questo insieme di regole eversive è irricevibile e alternativo ai valori e ai principi che fondano la sua esistenza: la CGIL. Dice l’avv. Ronchi: o si è iscritti al sindacato per difendere e rappresentare diritti individuali e collettivi nello svolgimento di quel bene tutelato dall’art.1 della Costituzione, o si sta con la ‘ndrangheta che quei diritti li calpesta. Non c’è possibilità di dialogo, non c’è nessuna torta o bottino da potersi spartire. ‘Ndrangheta e sindacato sono alternativi e conflittuali: dove c’è l’uno non c’è spazio per l’altro”.

In Aemilia gli avvocati di parte civile della CGIL erano riusciti a quantificare anche il danno patrimoniale derivante all’organizzazione dalla penetrazione mafiosa nel territorio, grazie ad uno studio realizzato da docenti dell’università la Bicocca di Milano che ha stimato il minor numero di tessere sindacali staccate nei comparti dei trasporti e dell’edilizia. In Grimilde non si è ripetuta quella metodologia perché i settori economici e le dimensioni d’impresa sono i più vari: dai grandi locali d’intrattenimento ai piccoli bar, dalle grandi imprese dell’agrozootecnico alla vendita di pizze in bicicletta, come dicevamo, passando per l’immancabile edilizia.

Ciò non toglie che a subire le ferite della presenza mafiosa nel territorio siano tanto le camere del lavoro territoriali dove le attività delittuose sono state concepite o realizzate (Reggio Emilia e Piacenza), quanto il coordinatore politico di queste realtà provinciali, la CGIL regionale. Perché “le tessere della CGIL” ricorda Ronchi, non si staccano a Roma, ma si ritirano nelle province in cui si lavora, grazie al rapporto con gli organismi locali di rappresentanza sindacale. Per questi territori il danno per ora stimato di cui la CGIL chiede il risarcimento è 100mila euro. Una cifra simbolica, che mai potrà ripagare il danno d’immagine ed esistenziale tanto del sindacato quanto delle persone in carne ed ossa che ad esso si rivolgono per ottenere tutela e rappresentanza.

Ai lavoratori colpiti la ‘ndrangheta ha per contro inferto un doppio sfregio: la prevaricazioni con la violenza per lo sfruttamento nei singoli casi finiti sotto imputazione, e l’utilizzo a vasto raggio delle metodologie intimidatorie propri del 416 bis, dispiegate per il raggiungimento del fine supremo: “a guadagnare dobbiamo essere noi che ti usiamo, non certo tu che lavori”.

Principio che fa parte di quell’ordinamento parallelo al quale sempre venerdì scorso hanno fatto riferimento nelle loro conclusioni anche gli avvocati di parte civile della regione Emilia Romagna: “La cosca che si è insediata in questa regione intendeva istituire un ordinamento parallelo e concorrenziale alle istituzioni, con finalità eversive”.

Chiaro, semplice, difficilmente contestabile.

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