Verità per Giulio Regeni

ANTICHI SAPORI E NUOVE CONDANNE

di Paolo Bonacini, giornalista

Reggio Emilia, Mantova, Bologna. Tre città e tre sentenze che negli ultimi dieci giorni scrivono una nuova pagina giudiziaria della lotta quotidiana alla ‘ndrangheta insediata nei nostri territori. Con due protagonisti di questa mafia calabro/emiliana messi per l’ennesima volta all’angolo: Nicolino Grande Aracri e Pasquale Brescia. Il primo condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Reggio Emilia il 2 ottobre quale mandante degli omicidi del 1992, e definitivamente condannato dalla Cassazione  una settimana dopo ad altri 20 anni e 8 mesi nell’ambito del processo Pesci sul radicamento mafioso in terra mantovana. Il secondo condannato il 13 ottobre a 13 anni di reclusione nell’Appello del processo Aemilia in corso di svolgimento a Bologna. Nel febbraio scorso all’apertura del dibattimento il legale di Pasquale Brescia, Gregorio Viscomi, aveva giocato la carta della ricusazione per incompatibilità di uno dei giudici del Collegio, Giuditta Silvestrini, che si era occupata di un’altra accusa (poi tradotta in condanna) a carico del suo assistito: la lettera minatoria inviata al sindaco di Reggio Luca Vecchi. Pasquale Brescia ha ottenuto con quella mossa lo stralcio della propria posizione, discussa davanti ad un diverso Collegio di giudici presieduto da Valentina Tecilla, ma il risultato è per lui pesante: passerà alla storia come il primo condannato in Corte d’Appello per il reato 416 bis (appartenenza ad organizzazione criminale mafiosa) tra gli imputati di Reggio Emilia che hanno presentato ricorso contro la sentenza di Caruso, Beretti e Rat.

Anche la sentenza della Cassazione passerà alla storia, perché per la prima volta Nicolino Grande Aracri è condannato in via definitiva da un tribunale del nord per “associazione mafiosa”. Si possono togliere i condizionali: non è più un presunto capo, è ufficialmente un “boss”. Anche a Mantova e dintorni, così come a Crotone.

Tanto che la coraggiosa giornalista della Gazzetta di Mantova Rossella Canadè, che questa storia di ‘ndrangheta la segue fin dall’inizio, si può togliere oggi qualche sassolino dalle scarpe: “Una sentenza senza se e senza ma. Fine delle centinaia di ore di udienze e soprattutto fine dei sì… però… sussurrati a mezza voce dai negazionisti sotterranei, maghi dei distinguo. Un giudizio senza più appello, che costituisce una pietra miliare per la storia di Mantova, ha commentato il procuratore generale di Brescia Carlo Nocerino”.

Non meno soddisfatta della Procura Generale bresciana è quella bolognese. La richiesta per Pasquale Brescia è stata trattata in aula dal procuratore generale Luciana Cicerchia e il sostituto procuratore Beatrice Ronchi, che aveva condotto il primo grado, definisce la successiva condanna “importantissima”. Per comprendere il senso dell’accrescitivo bisogna riassumere chi è e cosa ha fatto secondo l’accusa, nella storia emiliana di ‘ndrangheta, il 53enne Pasquale Brescia, originario di Crotone e residente all’epoca dei fatti a Cella di Reggio Emilia, dove era arrivato nel 1989.

Dice la sentenza di Reggio Emilia dell’ottobre 2018: “La mafia dei Sarcone, Brescia, Paolini e altri ha cercato di proporsi costantemente come gruppo di pressione e di sostegno politico, ottenendo un consenso non basato sulla paura, ma che trae forza da un senso di rispetto nutrito dalla popolazione verso un gruppo di soggetti che si propone come dispensatore, apparentemente disinteressato, di servizi e favori”.

Il “rispetto” verso il “dispensatore di favori” Pasquale Brescia allignava soprattutto, ahimè, in questura e in certi uffici dei carabinieri di Reggio Emilia. Le intercettazioni delle sue conversazioni telefoniche del 2012 rendono evidente alla procura distrettuale antimafia che Brescia, con la sua ditta edile, esegue lavori di ristrutturazione in via Dante, presso la questura di Reggio Emilia, dove lavora il suo “amico” Domenico Mesiano, assistente capo e autista del Questore, che verrà condannato in via definitiva a 8 anni e 6 mesi per concorso in associazione mafiosa.

Le sue relazioni con la Polizia sono utili anche per agevolare la concessione del porto d’armi ad amici della cosca  e Brescia condivide questi rapporti privilegiati “con chiunque degli associati possa farne richiesta”. Nell’altro comando, quello dei carabinieri, uno dei tanti amici è il maresciallo Alessandro Lupezza, a sua volta condannato ieri dalla Corte d’Appello a cinque anni di carcere come richiesto da Luciana Cicerchia. Per aiutare Pasquale Brescia non lesinava di consultare la banca dati e il sistema informatico dell’Arma, per vedere ad esempio se e su quali auto erano state installate cimici per registrare le conversazioni a bordo.

Ma le “buone relazioni” di Brescia non si limitano alle forze dell’ordine e spaziano dal mondo imprenditoriale a quello politico istituzionale. Dice sempre la sentenza di primo grado: “Offre ad Antonio Gualtieri (definitivamente condannato come capo cosca) la propria disponibilità ad entrare in un gruppo di imprese per la costruzione di villaggi turistici, impianti eolici e fotovoltaici in Calabria… nonché per il tentativo di acquisizione di una sala giochi presso il centro commerciale Le Vele di Parma… partecipa al summit presso l’ufficio di Nicolino Sarcone (definitivamente condannato come capo cosca) in occasione del quale viene stabilito un patto con l’avv. Giuseppe Pagliani per porre in essere una controffensiva mediatico-politica a salvaguardia degli interessi economico-criminali della consorteria… partecipa all’incontro (con Pagliani) tenuto all’interno del suo ristorante Antichi Sapori il 21 marzo 2012, curando altresì gli inviti a taluni dei partecipanti… si mette a disposizione di Giuliano Frijio per il reperimento di voti nel corso della campagna elettorale per il sindaco di Parma del 2012”. Campagna elettorale, per inciso, nella quale l’organizzazione mafiosa era combattuta tra il sostenere un candidato amico del PdL o un altro candidato, pure amico, del PD.

L’elenco dei reati attribuiti a Pasquale Brescia, al quale nel giugno scorso sono stati confiscati beni per mezzo milione di euro, non si ferma neppure con l’arresto del 2015, perché una volta in carcere, prosegue la sentenza, continua la sua “attività di inquinamento probatorio e di intimidazione di testimoni posta in essere con la complicità di sodali in libertà… in prima persona si adopera per mettere a disposizione dei detenuti un registratore con schede micro SD da impiegare all’esterno per condizionare i testimoni costringendoli a deposizioni compiacenti”.

E infine il reato politicamente più machiavellico, che ha prodotto la condanna  in Corte d’Appello nell’aprile 2019 a 6 mesi di carcere per minacce con l’aggravante del metodo mafioso: la lettera intimidatoria scritta dal carcere al sindaco Luca Vecchi e recapitata al Resto del Carlino (che la pubblicò) dal suo avvocato Luigi Antonio Comberiati (condannato a sua volta a sei mesi con la concessione della condizionale e della non menzione). Altre lettere simili erano state spedite in precedenza alla Gazzetta di Reggio (che non le pubblicò) prendendo di mira Iren, Agac, Transcoop.

L’insieme di queste azioni, aggiunge ancora la sentenza, mostra “un radicamento visibile e profondo, che sorprende e sconvolge la siciliana prefetto De Miro nel momento in cui, arrivando a Reggio Emilia dalla Sicilia, un territorio in cui la mafia per definizione non vede, non sente e soprattutto non parla, verifica sorprendentemente come noti ‘ndranghetisti o personaggi contigui e vicini siano protagonisti del dibattito pubblico”.

La storia del “Dragoniano della prima ora” Pasquale Brescia è dunque una storia emblematica della penetrazione mafiosa nei salotti buoni dei nostri territori e in alcuni centri decisionali della vita collettiva.

La sentenza d’Appello di Aemilia che lo condanna non è importante solo perché è la prima di questo rito. Nel merito essa rappresenta un nuovo solido mattone che rafforza il muro del contrasto ad una consorteria evoluta e pronta ad infettare tutti i centri del potere locale, allargando pian piano il proprio raggio d’azione. La sua storia rappresenta un calzante esempio di cosa intendesse il collaboratore di giustizia Antonio Valerio quando disse al processo di Reggio Emilia: “Eravamo pronti ad iniziare la scalata alla conquista della città attraverso le relazioni costruite, e diventare movimentatori di massa”.

Tornando alla sentenza della Cassazione sulla condanna definitiva di Nicolino Grande Aracri, la giornalista Rossella Canadè si pone una domanda che è bene fare nostra in conclusione, affinché ci serva da monito: “…Qui la cosca ha corrotto il mercato edilizio ed economico sotto le direttive di Grande Aracri. Al di là di ogni dubbio. Un punto di non ritorno che dà un senso compiuto al lavoro certosino degli investigatori. Furono loro, nove anni fa, a mettere insieme i tasselli di un puzzle che nessuno avrebbe mai immaginato. E che tanti, in questi anni, hanno continuato a negare. Da allora sconcerto, incredulità, rabbia e tanta, troppa indifferenza. Ottusa cecità o subdola connivenza?”

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