Verità per Giulio Regeni

AEMILIA A BOLOGNA… PASSANDO DA MODENA

Per Aemilia è tempo di ricominciare. Il più grande processo alla ‘ndrangheta della storia italiana approda nell’aula bunker del carcere della Dozza a Bologna, dove da giovedì 13 febbraio 2020 iniziano le udienze del secondo grado di giudizio.

di Paolo Bonacini, giornalista

Per Aemilia è tempo di ricominciare. Il più grande processo alla ‘ndrangheta della storia italiana approda nell’aula bunker del carcere della Dozza a Bologna, dove da giovedì 13 febbraio 2020 iniziano le udienze del secondo grado di giudizio. Due i riti, come a Reggio Emilia, che andranno avanti in contemporanea a ritmo serrato: l’appello del processo ordinario, con oltre 100 imputati che contestano la sentenza di primo grado (898 anni e 3 mesi complessivi di reclusione), e l’appello del rito abbreviato, richiesto da 24 condannati (325 anni di reclusione). Rivedremo le parti civili danneggiate dalla ‘ndrangheta in Emilia Romagna, prime tra tutte la CGIL dell’Emilia Romagna e le Camere del Lavoro di Reggio e Modena: due province dove i fatti accaduti e la stessa presenza dell’organizzazione mafiosa hanno violato i diritti dei lavoratori e leso le possibilità di rappresentanza delle organizzazioni sindacali. Rivedremo la nutrita schiera degli avvocati difensori che popolava il prefabbricato bianco del Tribunale di Reggio Emilia, mentre saranno nuovi i volti e i nomi della pubblica accusa e del collegio giudicante, a parte il sostituto procuratore Beatrice Ronchi, attualmente impegnata al processo in Corte d’Assise a Reggio per gli omicidi di mafia del 1992. Gli altri Pubblici Ministeri sono Luciana Cicerchia, Lucia Musti, Valter Giovannini. I tre giudici che guideranno il processo sono Alberto Pederiali (Presidente), Maurizio Passarini e Giuditta Silvestrini (giudici a latere).

In attesa di conoscerli, il passaggio delle consegne avviene simbolicamente a mezza via tra Reggio e Bologna, all’oratorio del Gesù Redentore di Modena, dove 150 studenti dell’istituto tecnico Enrico Fermi martedì 11 febbraio incontrano uno dei tre giudici del processo di primo grado a Reggio Emilia: il dott. Andrea Rat.

Nato sul nostro Appennino 43 anni fa, il dott. Rat è tra i magistrati più esperti, nonostante la giovane età, della sezione penale del Tribunale di Reggio Emilia. Ha condotto le 195 udienze del processo Aemilia assieme all’attuale Presidente del Tribunale, Cristina Beretti, e al Presidente del Tribunale di Bologna Francesco Maria Caruso (a sua volta in precedenza Presidente del Tribunale reggiano).

Prima del processo Aemilia avevo avuto modo di apprezzare le argomentazioni del giudice Rat quando aveva rigettato, in sede civile, una pesante richiesta di risarcimento danni intentata nel 2009 dai vertici di una importante Fondazione nei confronti di Telereggio (di cui ero direttore) per un servizio del TG. Scrisse tra le altre cose il dott. Rat nella sentenza: “La Costituzione non protegge solo le idee inoffensive o favorevoli, ma garantisce soprattutto il diritto a esprimere anche opinioni che urtano, che scuotono, espresse con toni duri e dissacranti, purchè non rappresentino attacchi gratuiti e arbitrari”. Una frase che andrebbe scolpita nel presente.

Agli attentissimi ragazzi dell’istituto Fermi, rispondendo alle loro infinite domande, Andrea Rat ha parlato del processo Aemilia, con il rigore e i limiti che deontologia e doveri di un giudice impongono. Ma ha anche e soprattutto raccontato la propria esperienza umana, legata ad una vicenda processuale talmente importante e grande da condizionare la vita. Ha descritto le proprie emozioni, collegate a tanti e diversi momenti difficili e importanti del processo, riuscendo così a catturare quell’attenzione dei ragazzi che risuona sempre quando si abbandonano descrizioni astratte a beneficio di intime verità. La paura di sbagliare non è un disvalore, e la prima paura il giudice Rat dice di averla provata di fronte alle dimensioni gigantesche del processo, quando lesse e rilesse e controllò tante volte i 149 avvisi di comparizione spediti agli imputati all’inizio della storia, perchè “sarebbe stato sufficiente anche un solo errore per invalidare tutto”. I tre anni successivi di udienze Rat li racconta cercando di descrivere la tensione ideale che lo ha guidato nel suo lavoro. La necessità di comprendere e sviscerare ogni aspetto di ogni singola vicenda, di ripercorrere le 10mila pagine delle testimonianze rese in aula o le 100mila delle intercettazioni telefoniche e ambientali trascritte. La ricerca del “meglio possibile” nella propria azione e nelle decisioni, tenendo sempre chiari a mente i principi guida della giurisprudenza.

Poi un’altra paura, non più sua: è quella “che ho visto assieme al terrore negli occhi di tanti testimoni”, dice. Una paura palpabile, diffusa, che ha condizionato tante udienze, che traduce in emozioni vere e percepibili in aula i concetti di base dell’articolo 416 bis del codice penale: intimidazione, assoggettamento, omertà. Ha visto anche le varie gradazioni di grigio della cosiddetta “zona grigia”, il dott. Rat nell’aula bunker di Reggio Emilia, e immediata sorge la domanda alla quale il giudice dovrà dare una risposta: “E’ un grigio che tende all’assoluzione o alla condanna?”. Il corollario è che la risposta sia argomentata, razionale e non istintiva; bisogna pensarci bene insomma, poiché “ogni condanna la porti poi sempre sulle tue spalle”.

“Ho imparato tanto da questa esperienza” aggiunge Rat “perché c’è sempre da imparare, non è mai finita”. E al termine delle udienze, dopo una lunghissima Camera di Consiglio “che non ha forse eguali in Italia”, chiusi nelle stanze della Questura; dopo che il presidente Caruso il 31 ottobre legge il dispositivo della sentenza con la lista degli assolti e dei condannati; dopo “inizia la parte brutta del lavoro”.

Perché bisogna scrivere le motivazioni, spiegare caso per caso, persona per persona, il perché e il quanto della condanna. Lo deve fare lui, Andrea Rat, estensore e relatore di quella sentenza che dietro un semplice numero di catalogazione, 1155, racconta una storia intrecciata alle vicenda passate delle nostre terre oltre ogni precedente immaginazione. A farlo, a scrivere quelle motivazioni, “ci si rimette la vita, e gli occhi, ma si diventa anche tanto più grandi di prima” dice Rat. Giorni e notti, per 10 mesi, “imparando il sacrificio, pensando sempre alla comunità, agli imputati, alle parti civili che aspettano. Cercando ancora una volta di dare il meglio, di scrivere le cose giuste, perché si possa andare avanti…”

C’è spazio anche per una riflessione di merito, sul rapporto tra infiltrazione della ‘ndrangheta e territorio. Andrea Rat usa il “noi” che non scarica responsabilità sugli altri e si chiede: “Nessuno di noi se n’era accorto? Nessuno di noi aveva capito cosa stava avvenendo nelle nostre terre?” E’ una domanda attuale, che riguarda tutti. Nel tempo, dice il giudice, abbiamo certamente fatto luce su fatti e dettagli di questa penetrazione malavitosa, ma prima di Aemilia è come se avessimo guardato le singole tessere di un puzzle senza vedere il disegno complessivo.

Al tavolo assieme a lui, nell’oratorio del Gesù Redentore, c’è anche il referente di Libera per la provincia modenese Maurizio Piccinini e ci sono anche io. Che mi perdo ad ascoltare Andrea Rat, perché penso che quel disegno complessivo, quella fotografia che aiuta poi a dare un senso unitario alle mille piccole tessere del puzzle, hanno saputo immaginarlo, vederlo, documentarlo, dandogli lo spessore necessario per reggere alla prova del dibattimento in aula e di giudici super partes, poche persone. Due certamente: i pubblici ministeri Mescolini e Ronchi che hanno condotto le indagini e il processo. Noi siamo arrivati dopo.

Quei quattro libroni rilegati che contengono la sentenza, che il giudice Andrea Rat ha scritto e porta sul tavolo dell’oratorio, quasi a dimostrare che non sta mentendo, che si tratta di una storia vera, sono lì a nostra disposizione. Migliaia di pagine, per una sola e possibile verità.

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